Stamattina ho parlato del summit dei Brics a Radio Popolare, in maniera un po’ controintuitiva rispetto alla lettura che va per la maggiore dalle nostre parti (chi si è degnato di parlarne, si capisce), che si è basata sull’equazione “assenza di Xi e Putin = i Brics sono già falliti”. Personalmente credo che i Brics siano un costante “lavoro in corso”, tipo la Salerno-Reggio Calabria, con passetti in avanti e qualche perdita di tempo, distrazione, battuta d’arresto, raccordo costruito a metà. Di base però ritengo che ci sia una tendenza dominante nella parte maggioritaria del mondo e che vada verso la costituzione di un’alternativa al Washington consensus e all’ordine globale incentrato sugli Usa; una tendenza di cui i Brics sono forse la manifestazione istituzionale più visibile, pur nelle loro divisioni interne, incoerenze, fragilità. Il gruppo cresce, già l’acronimo Brics è vecchio di 15 anni (cioè, quando nel 2010 il Sudafrica si unì ai membri fondatori: Brasile, Russia, India, Cina), adesso dovrebbe essere Bricseieie, se poi ci aggiungiamo i dieci “stati partner” diventa illeggibile. La crescita rende ovviamente più difficile gestire le diverse agende interne, ma lo scivolamento tettonico mi pare evidente.
Comunque, qui sotto c’è la registrazione del mio intervento.
Ha suscitato scalpore proprio l’assenza di Xi Jinping, che dal suo insediamento nel 2012 aveva partecipato a tutti i summit Brics. I cinesi hanno mandato Li Qiang, cioè il “vice” - premier nella gerarchia di stato e secondo in quella di partito - un “numero due” che sta però ad abissale distanza dal numero uno (spesso lo chiamano proprio così, in Cina, “yi hao”). Questa circostanza, oltre all’ipotesi che a Xi Jinping non interessino più i Brics - ergo, “i Brics sono già morti” - ha indotto a considerare un’ipotesi alternativa: Xi Jinping è caduto in disgrazia o sarebbe morente.
A corroborare questa idea, ci sono stati altri indizi: Xi è stato meno presente sulle prime pagine dei media di stato; non ha partecipato ad alcune riunioni degli organismi che di solito presiede, anzi, questi organismi sono appena passati per una riforma che ne definisce i limiti e prevede maggiori deleghe ai sottoposti; la riunione del Politburo di maggio non ha avuto luogo; Xi non ha presieduto una recente riunione della Commissione Militare Centrale (uno dei tre organismi fondamentali del potere, forse ancora più importante dell’apparato di partito e di stato); un incontro con il presidente bielorusso Lukašenko si è tenuto a casa di Xi, non in edifici ufficiali, e le fotografie sono state scarse.
Per un’ampia confutazione di queste dicerie, rimando a questo articolo, secondo cui Xi potrebbe essere stato sottoposto a qualche intervento chirurgico minore, diciamo un tagliando - in fondo ha 72 anni - e questo spiegherebbe tutto. Suggerisco anche questo approfondimento (2023) sulla “scatola nera” della politica cinese.
Da parte mia, aggiungo alcune considerazioni:
Xi ha appena compiuto un tour nella provincia dello Shanxi dove, ricordando “l’incidente del 7 luglio” (1937, l’inizio della guerra di resistenza contro i giapponesi) ha parlato di tutto e di più con scolaresche, funzionari locali e popolo plaudente; non sembra morente.
la prima pagina del Quotidiano del Popolo continua a essere “Xi, Xi e ancora Xi”;
è appena uscito il primo volume delle opere selezionate di Xi sulla “civiltà ecologica”, che per altro fa parte di una serie infinita e periodica di libroni sul pensiero di Xi Jinping (ne ho un paio anch’io negli scatoloni rimasti a Pechino, ce li regalavano ogni volta che facevamo il rinnovo del visto giornalistico al ministero degli Esteri cinese); non si pubblicano pensieri, opere, opinioni di un leader in disgrazia;
in Brasile, Li Qiang ha citato continuamente Xi Jinping nel proprio intervento che incoraggiava l’unione del Sud Globale per la comune resurrezione: “Nel 2015, il presidente Xi Jinping ha esposto la visione di governance globale basata su ampie consultazioni e contributi congiunti per un beneficio condiviso, offrendo la soluzione della Cina alla sfida della governance globale”, e bla bla bla.
No, Xi Jinping non sembra né morente, né in disgrazia. Forse, azzardano alcuni, la presa di distanza da alcuni incarichi e la conseguente delega ad altri della sua cerchia, dopo tredici anni di accentramento, indicano l’apertura di una nuova fase, in cui Xi si concentrerà maggiormente sui compiti fondamentali, lasciando forse spazio - e diciamo FORSE - a papabili successori, affinché si mettano in mostra o provino le proprie capacità. Ci sono nomi? No, assolutamente, guai!
Tuttavia, occhi aperti in vista del 21° congresso del Partito comunista, nel 2027.
Sia inteso: Xi Jinping avrà a quella data 74 anni; Jiang Zemin è morto nel 2022 a 96 anni, e ancora muoveva la carte dietro le quinte. Non aspettiamoci una completa uscita di scena del lingxiu (领袖 - cioè “leader”, termine che risaliva ai tempi di Mao Zedong e che è stato reintrodotto appositamente per Xi nel 2017, mentre per i predecessori si usava il meno elevato lingdao - 领导)
Il secondo leader di cui vorrei parlare è invece il Dalai Lama, di cui la settimana scorsa si è celebrato il novantesimo compleanno. E qui mi scuso, perché riprenderò pari pari cose che ho già scritto su Facebook e/o detto negli interventi radio.
Ordunque, tutto il mondo era in attesa dei pronunciamenti di Tenzin Gyatso, perché nel 2011 disse di non essere sicuro che ci sarebbe stato un altro Dalai Lama dopo di lui, promettendo anche che avrebbe chiarito tutto intorno al proprio novantesimo compleanno, cioè, appunto, lo scorso 6 luglio. L’aveva detto per riaffermare la propria autorità sulla reincarnazione di sé stesso medesimo e per togliere a Pechino ogni voce in capitolo, visto cosa era successo con il Panchen Lama, la seconda autorità del buddhismo tibetano, fatto sparire dai cinesi con tanto di sostituto installato al suo posto.
La settimana scorsa, il vecchio ha detto che, dopo aver ascoltato tutte le componenti del buddhismo tibetano e anche voci dall’interno del Tibet, ha deciso che l’istituzione proseguirà (che suona come “ho deciso di reincarnarmi, pensa un po’ te”). Dunque, ci sarà un altro Dalai Lama e l'attuale chiarisce anche che l'unica autorità legittimata a riconoscere la sua prossima reincarnazione sarà il Gaden Phodrang Trust, organizzazione da lui stesso fondata, previa consultazione con i capi delle diverse tradizioni buddiste tibetane.
Da tempo si vocifera che per sottrarre a Pechino il controllo della prossima reincarnazione, verrà prescelto un Dalai Lama nato fuori dalla Cina, questo però non è ancora confermato, né può esserlo a rigor di logica, anche se lui vi aveva accennato in precedenti dichiarazioni e in un libro pubblicato proprio quest’anno, dove ha scritto che il nuovo Dalai Lama nascerà “nel mondo libero” e potrebbe anche essere una donna. Ma sono tutte boutade di Gyatso, perché la scelta della futura reincarnazione si basa su una serie di rituali e indizi che si verificano DOPO la sua morte.
Giusto per metterla semplice: Tenzin Gyatso NON PUÒ scegliere il suo successore, perché si presume sia la sua reincarnazione, quindi lui dovrebbe essere già morto nel momento in cui quello nasce. Si è vociferato di una “emanazione” del Dalai Lama ancora vivente (quindi, qualcuno dice, l’indicazione di un erede), ma è la stessa cerchia del vecchio a definire altamente improbabile questa ipotesi.
Lui ha perfino detto di godere di buona salute e di essere intenzionato a vivere fino a 130 anni, quindi non sembrerebbe disponibile a reincarnarsi a breve; ergo, non esiste già sul pianeta il futuro Dalai Lama, che di solito viene scelto tra i bambini nati nei giorni in cui muore il vecchio, ma anche parecchio dopo. Giusto per intenderci, il vecchio Dalai Lama morì nel 1933, Tenzin Gyatso nacque nel 1935, fu identificato come possibile reincarnazione nel 1937 e nominato Dalai nel 1940.
Il punto è che se lui dà indicazioni troppo stringenti, viola la tradizione e i principi stessi della reincarnazione; se non si esprime, rischia di lasciare la palla a Pechino.
Pechino, appunto.
La risposta immediata delle autorità cinesi è stata che il nuovo Dalai Lama dovrà nascere in Cina e avere l'approvazione del governo. Questo non corrisponde solo all’ideologia in materia religiosa della RPC, per cui c’è un solo imperatore sotto il cielo (una sola autorità in Cina) e quindi anche i capi religiosi devono avere il beneplacito di Pechino (vedi la questione dei vescovi cattolici), bensì anche il fatto che il titolo di Dalai Lama fu per la prima volta conferito da un Khan mongolo (cioè, un’autorità politica), Altan Khan, nel 1578, a cui si accodò l’imperatore Ming; e in seguito gli imperatori cinesi e i Dalai Lama hanno sempre avuto relazioni strette, con i primi che davano ai secondi sigilli, titoli e certificati che ne sancissero il potere. Durante la dinastia Qing ci fu anche un rituale per cui le possibili reincarnazioni venivano estratte da un’urna. Non si può scindere del tutto - quanto meno su basi storiche - la carica del Dalai Lama dal potere politico.
Quindi, da un lato c’è Xi Jinping, dall’altro il Dalai Lama. Entrambi sembrano in più che discreta salute e uno ha pure dichiarato che vivrà 130 anni; l’altro non l’ha detto, ma forse lo pensa.